Forse non ci avete mai fatto caso, ma se date un'occhiata nella vostra libreria di casa, sicuramente troverete qualche Oscar Mondadori degli anni '70 o '80. Basta guardare la copertina e scoprire un'illustrazione che la vostra memoria abbina, automaticamente, al titolo dell'opera.

"Non capisco perché vi interessino le copertine della mia prima serie di Maigret; così 'brutte', così commerciali..." premette subito Ferenc Pintér, che nonostante sia da una dozzina d'anni in pensione, continua a rammaricarsi di non aver potuto continuare con i manifesti che già gli avevano dato soddisfazione e riconoscimento, vedi Graphis e Gebrauchsgraphik, oltre ad una fitta continuità nel campo del manifesto politico in favore di  Solidarnosc, Sacharov ecc ecc. Grandi come il suo primo lavoro, nel 1956, "Ottanta metri quadri di pannello per la Radiomarelli, a Milano, dove mi aveva introdotto l'architetto Pierluigi Spadolini, il fratello... - spiega Pintér -. Un mese di lavoro da solo; mi avevano fatto trovare solo i pannelli e sono andato avanti a pane e ricotta".

Forse è il caso di fare un passo indietro, al 1931, quando Ferenc nasce per caso ad Alassio, sulla riviera ligure. "Forse i miei erano lì in villeggiatura - racconta Pintér -. Più probabilmente mio padre realizzava ritratti nelle hall degli alberghi... Allora si usava...". Il padre Jòzsef è, infatti, un pittore mentre la mamma, la fiorentina Anna Antonazzi, ha dovuto superare non pochi problemi con la famiglia per affrontare una vita così bohémienne.

Nel dicembre '40 a papà Jòzsef, a causa di un brutto decorso di una tubercolosi che difficilmente lasciava scampo, viene consigliato un'intervento chirurgico a Budapest. "Non so se effettivamente per suggerimento clinico, o per toglierselo dai piedi - ricorda l'artista -, fatto sta che ci trasferimmo tutti a Budapest". Tra le opzioni chirurgiche, con più o meno anni di vita garantiti, Jòzsef è costretto ad una scelta dolorosa; quella che lo manda a morte certa, ma che gli offre l'occasione di provvedere per qualche anno, lavorando, ai bisogni della famiglia. Alla fine del conflitto mondiale Ferenc si ritrova quindicenne a Budapest e, visto l'enorme talento figurativo già espresso nelle scuole superiori, gli è naturale scegliere l'Accademia di belle arti. "Ho tentato tre volte d'iscrivermi - ricorda ancora con un po' di fastidio -, e per tre volte mi hanno respinto". Com'è facile intuire, nell'Ungheria dei primi anni cinquanta, non erano certo le carenze tecniche a bloccare la strada a Pintér. "Bastava avere un bel paio di scarpe... Intendiamoci, banali scarpe con la para, inviate dalla zia di Firenze, una certa giacchetta e frequentare amici non classificati, per essere esclusi".

Anche quando riesce ad accedere all'esame d'ammissione a Ferenc non va tutto liscio. "Durante una prova d'esame con le modelle, venni invitato a lasciare l'aula per un incontro". In sala insegnanti lo attendono domande risapute; cosa legge, che corrispondenza mantiene, quali film preferisce. Domande a cui Ferenc è preparato e alle quali sa benissimo cosa rispondere. Ma è più forte di lui. "Sapevo che dovevo citare tutti i classici sovietici, ma non ci riuscivo proprio... finivo per infilarci i miei preferiti - spiega con un sorriso un po' triste -. Mi hanno fatto alzare e mandato via, senza nemmeno finire la prova d'esame".

Che sia una lotta impari Ferenc lo realizza nel lunghissimo periodo da militare, dal 1951 al '53. "Ho avuto il primo permesso, di sole 48 ore, dopo sei mesi". Cerca di "integrarsi" offrendo al "prestito nazionale" l'intera sua paga mensile, per ottenere la suddetta licenza dal commissario politico. Finalmente, nel '55, partecipa alla 2° Mostra del manifesto ungherese e i suoi lavori cominciano a viaggiare. "Vienna, Mosca, Varsavia, illustrazioni per la camera di commercio, grandi composizioni murali per la fiera di Budapest... Il lavoro che avevo sempre desiderato fare". Ma Pintér non ha fatto i conti col calendario della storia, con la rivoluzione che, lo vede - il 23 novembre del 1956 - varcare il confine per tornare in Italia. Ed eccoci al pannello di 80m2 a pane e ricotta, ai primi lavori su commissione come il murale per il Monopolio Tabacchi alla fiera di Milano e la prima campagna d'affissioni pubblicitarie per Facis. Nel febbraio 1960 Pintér viene assunto, come grafico interno, alla Mondadori dove rimarrà per 32 anni. Al Servizio grafico editoriale Mondadori, diretto da Anita Klinz, oltre a Pintér lavorano altri tre illustratori; l'olandese e fumatore di pipa Sharff (che aveva ideato la grafica delle copertine di Maigret negli anni '50/60), Ferruccio Bocca e Bruno Binosi. Nello stesso ufficio conosce , nel '62, Paola, che diventerà sua moglie un anno dopo. I primi lavori grafici sono annunci dei gialli editoriali, in colonna, sui rotocalchi mondadoriani. Le prime copertine affidate a Pintér rigurdano dei libri strenna (Cecov, Verne, ecc.) dove occorre provvedere anche alle illustrazioni interne. Pintér dimostra immediatamente un'originalità interpretativa invidiabile e gli vengono affidate le copertine della collana più popolare; gli Oscar. "Il primo Oscar fu l'Iliade, poi Voltaire - ricorda Pintér -, in media mi toccavano cinque copertine al mese oltre, naturalmente, alle vari illustrazioni". Quando Mondadori decide di rilanciare la grande collana delle inchieste del commissario Maigret, la scelta cade inevitabilmente sul più bravo. "Mi diedero carta bianca e scelsi la somiglianza con Cervi non per imposizione o per sfruttare la popolarità del personaggio - svela Ferenc -, ma perché mi piaceva come, del resto, mi dissero che piacesse a Simenon". Pinter non incontrò mai lo scrittore belga, anche se Simenon pretendeva - per contratto - la supevisione delle illustrazioni e l'ok finale. "Ho capito solo in un'occasione che Simenon doveva dare l'ok - spiega il disegnatore -. Avevo proposto delle varianti sia nelle pose, sia nell'abbigliamento che certo non c'erano nei libri e negli sceneggiati tv, e che Simenon approvò con entusiasmo". Entusiasmo che a Pintér non venne mai trasmesso dai manager Mondadori che, anzi, non si preoccupavano neanche di chiedere all'autore l'originale di un disegno particolarmente gradito. "A quei tempi, se gli piacevano, capitava che se li tenessero e basta - scuote la testa Pintér -. Era già buono se te lo comunicavano; sparivano semplicemente... In fondo eravamo considerati degli impiegati".

Le copertine di Pintér fanno il giro del mondo e se una collana popolare e ventennale come gli Omnibus aveva un'anima, questa anima era dovuta al lavoro di Pintér che ne progettava copertina e risguardi. Eppure, nonostante il successo, Pintér continua a considerare l'editoria come un ripiego. "La mia tecnica nasce dalle cose che mi interessano veramente - spiega -, come i manifesti, le grandi superfici lisce". Inevitabile quindi l'uso, come matita grassa, della Cyclop grafite 4B per i disegni e delle tempere (Marabò, Talens, Windsor-Newton), "mai l'olio e non mi piace l'acrilico", precisa Pintér che, in realtà, è in grado di esprimersi graficamente con tutte le tecniche, incluso alcune sperimentali che l'hanno visto decolorare e disegnare su stampa come su fondo metallico.

Se c'è una cosa, però, che colpisce del grande Ferenc (oltre al fatto che fuma la pipa) è la sua grande semplicità, la sua modestia, la sua consapevolezza di essere bravo e, ciononostante, la sua decisione di rimanere dietro le quinte, di non apparire. "Bisogna anche sapersi 'vendere' e avere fortuna - conclude Pintér -. Vendermi non è mai stato il mio forte e mi ritengo già fortunato di avere fatto il mio percorso in Mondadori senza fare mai mancare nulla alla mia famiglia. Forse le sembrerà strano, in questi tempi dove le tasse cercano tutti di evitarle, ma quando fatturai la mia prima collaborazione esterna ero orgoglioso di poter pagare le tasse. Ero soddisfatto di poter dare il mio contributo a questo Paese che mi ha dato tanto...".

Ferenc Pintér, un uomo così.